Catherine
                    Destivelle, Verticali, Milano, Corbaccio, 2005 
                Le sue prime scalate le ha
                  compiute in falesia a Fontainebleau da ragazzina e, dopo aver
                  praticato il free climbing per puro divertimento,
                  Catherine Destivelle a venticinque anni è  entrata nel
                  mondo della competizione dove ha ottenuto più  volte
                  il titolo di campionessa mondiale. 
                  Unica donna ad aver superato un ottavo grado in falesia, la
                  Destivelle decide di abbandonare le gare per tentare imprese
                  tecnicamente quasi impossibili ma a lei più congeniali:
                  ripete la via Bonatti al Petit Dru e poi apre in solitaria
                  una nuova via, scala in diciassette ore la mitica parete nord
                  dell’Eiger, prova l’ebbrezza degli ottomila raggiungendo
                  la vetta dello Shishapangma, va in Antartide. Alpinista, chinesiterapista
                  e mamma, la Destivelle racconta in questo libro l’equilibrio
                  perfetto che è  riuscita a raggiungere, facendo della
                  montagna e dell’alpinismo la sua grande passione, ma
                  senza rinunciare a vivere «una vita normale». 
                Catherine
                    Destivelle è  nata
                  nel 1960. Alpinista professionista, è considerata uno
                  dei maggiori free climber al mondo, oltre che chinesiterapista
                  e consulente per aziende che producono materiali tecnici per
                  l’arrampicata. Tiene conferenze in tutto il mondo sulle
                  sue imprese. 
                (terza e quarta di copertina) 
                  
                La montagna
                    che avevamo scalato non aveva un nome. […] ci trovavamo in Antartide […]
                  la foto destinata ad arricchire la nostra collezione di ricordi
                  e a essere proposta ai media […] doveva riuscire il
                  meglio possibile […]. Senza darmi nemmeno un’occhiata
                  alle spalle, sicura che il pendio fosse tutto di ghiaccio omogeneo,
                  feci un passo indietro. […] Perso l’equilibrio,
                  per un attimo le mie braccia rotearono in aria come pale di
                  mulino. Ma non servì a nulla, perché mi sentii
                  precipitare. […] Al terzo rimbalzo, qualche metro più  in
                  giù, il mio sguardo affondò per una frazione
                  di secondo nell’abisso buio e ghiacciato. Allora mi dissi:«Se
                  non riesce a trattenermi questa volta è tutto finito».
                  La sciocchezza che avevo commesso mi sarebbe costata la vita.
                  […] Mentre le mie capriole mi sembravano sempre più violente
                  e vertiginose, ecco che la corda bloccò di botto la
                  caduta.. La prima parte del mio corpo che riprese contatto
                  con la parete fu il mento. Felice che l’incubo fosse
                  cessato, ma un po’ stordita, ci misi due o tre secondi
                  a capire dov’era l’alto e dov’era il basso.
                  […] Con le mani tremanti per l’angoscia, tirai
                  su il bordo del pantalone destro e con orrore scoprii che avevo
                  una frattura esposta. […] Ventiquattr’ore più tardi
                  la squadra di soccorso poté infine atterrare e sottrarci
                  a quell’inferno. Nel vedere l’espressione allucinata
                  di coloro che ci accolsero a Patriot Hills, capii che mi stavano
                  guardando come si guarda un fantasma. […] La coscienza
                  ottenebrata dal sedativo, il viso grondante di lacrime per
                  la prima volta dopo la caduta, compresi ciò  che avevo
                  intuito dagli sguardi e dalle frasi che percepivo vagamente: «È un
                  miracolo che sia sopravvissuta »,  «She comes
                  back from hell» (Sta tornando dall’inferno).
                  La storia finì bene. Oggi, grazie all’intervento
                  di un esperto chirurgo di Punta Arenas in Cile, non mi rimane
                  nemmeno un segno di quell’incidente. 
                  Miracolata? Io non la vedo esattamente così. Certo,
                  non si capirà mai che cos’è che veramente
                  consente a un individuo di trovare le risorse per reggere a
                  una situazione del genere. D’altra parte ciò  di
                  cui sono certa è che non avrei mai potuto venirne fuori
                  senza tutta l’esperienza accumulata in montagna fin dai
                  miei primi passi sulla roccia. (da: Introduzione,
                  p. 5-7, 18) 
                  Quando ero bambina nei weekend i genitori ci portavano a prendere
                  aria nella foresta di Fontainebleau […]. Avevo molti
                  amici e giocavamo all’aria aperta per tutto il fine settimana:
                  pattini a rotelle, bicicletta, pallone, biglie… Ci divertivamo
                  insomma quasi quanto nella foresta. Finché  i giochi
                  si fecero meno spontanei, meno spensierati. I miei amici, ragazze
                  e ragazzi in eguale misura, non avevano più lo stesso
                  entusiasmo per gli sport all’aria aperta. Preferivano
                  scambiarsi confidenze, ascoltare musica, starsene al chiuso
                  per interi pomeriggi, oppure andare in giro per la città a
                  fare  «scemenze», come dicevano i grandi. Non si
                  trattava di cose gravi, la scemenza peggiore era quella di
                  fumare sigarette di nascosto ... mentre io diventavo aggressiva,
                  irritabile, giravo a vuoto, senza sapere che cosa inventare
                  per passare il tempo. I miei genitori se ne preoccuparono e
                  mi proposero allora di iscrivermi al Club Alpin Français
                  per arrampicare. Non me lo feci dire due volte! Era il mio
                  più grande desiderio da quando avevo sentito un’amica
                  di mia madre che ne parlava con i miei genitori. Sapevo che
                  arrampicare era un buon approccio all’alpinismo, dunque
                  alla montagna, il che rispondeva perfettamente a quella che
                  era stata la mia primissima vocazione: fare la pastora! Al
                  compimento dei dodici anni, in settembre, fui dunque iscritta
                  al CAF , e potei in piena libertà andare tutte le domeniche
                  nella foresta di Fontainebleau. (da: Nascita di una passione,
                  pp.19-20) 
                Dall’indice: Introduzione;
                  1 – Nascita di una passione; 2 – Quando
                  arrampicare diventa un mestiere; 3 – Ritorno
                  alla montagna: le Torri di Trango e il pilastro Monatti;
                  4 - I Drus: una «prima»; 5 – L’Eiger
                  in solitaria invernale; 6 – Le Grandes Jorasses
                  e il Cervinio; Conclusione. 
                Collegamenti 
                  alpinia.net 
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