Giuliana Sgrena, Fuoco amico, Milano, Feltrinelli,
                  2005 
                Giuliana
                    Sgrena nel rivivere la sua drammatica esperienza ci racconta
                    lucidamente i tanti mutamenti socio-politici avvenuti dopo
                    l’intervento americano
                  in Iraq, dove né gli occupanti né chi combatte
                  l’occupazione vogliono più testimoni. 
                  L’incubo di quattro settimane, prigioniera di mujaheddin
                  che sostengono di combattere contro l’occupazione dell’lraq.
                  La gioia per la liberazione violentemente interrotta dal fuoco
                  delle truppe americane che uccide Nicola Calipari, l’agente
                  che l’ha salvata dai rapitori. Due volte vittima del “fuoco
                  amico”. 
                  Un’esperienza drammatica vissuta in un paese dilaniato
                  dalla guerra e dall’occupazione, dove anche gli ostaggi
                  diventano un’arma di guerra e le vittime civili irachene
                  ormai non si contano più. 
                  I ricordi del rapimento, le sensazioni quotidiane vissute in
                  una stanza chiusa e al buio, gli incubi del sequestro si intrecciano
                  con i temi della realtà  irachena (guerra, sequestri,
                  profughi, resistenza, terrorismo, religione, la condizione
                  delle donne, il progressivo processo di libanizzazione del
                  paese ecc.) e con i richiami al passato regime, a Saddam, all’embargo
                  e alla vicenda delle mai rinvenute armi di distruzione di massa. 
                  Una realtà  insidiosa che pone il problema di come fare
                  informazione su un terreno di guerra senza essere “embedded” con
                  le varie truppe di occupazione. 
                Giuliana
                    Sgrena è  inviata
                  de “il manifesto” non solo in Iraq, ma in Somalia,
                  Palestina, Afghanistan e Algeria. Collabora anche con RaiNews24,
                  il settimanale tedesco “Die Zeit” e la radio della
                  Svizzera italiana. Tra i libri pubblicati: Kahina contro
                  i califfi, islamismo e democrazia in Algeria (Datanews
                  1997); Alla scuola dei taleban (manifestolibri 2002); Il
                  fronte Iraq, diario da una guerra permanente (manifestolibri
                  2004).  
                 (dalla quarta di copertina) 
                   
                Il mio
                    sequestro ha avuto un duplice effetto: una frustrazione sul
                    piano professionale e una conferma sul piano politico. Fino
                    alla vigilia della mia ultima partenza per Baghdad, sostenevo
                    che nonostante la pericolosità  della
                  situazione, bisognasse correre il rischio per informare sugli
                  effetti devastanti della guerra in Iraq. Io, come altri, quel
                  rischio l’ho corso, ma ho dovuto constatare che in questo
                  momento in Iraq non c’è più la possibilità di
                  lavorare. Di svolgere questo mestiere come lo intendo io: andare
                  sul terreno, rappresentare la quotidianità della guerra
                  e testimoniare delle sofferenze parlando con i protagonisti
                  di quella realtà. Sono andata a intervistare i profughi
                  di Falluja, tra gli iracheni quelli che forse più hanno
                  sofferto sotto l’occupazione, e sono stata rapita. La
                  giornalista francese, Florence Aubenas, è  stata rapita
                  esattamente nello stesso posto, un mese prima, ma l’avrei
                  saputo solo dopo. Rapite dopo aver intervistato i profughi,
                  forse persino proprio per averli intervistati, è la
                  dimostrazione che in Iraq - chi ha il potere delle armi – non
                  vuole testimoni. E dover accettare questa imposizione è in
                  qualche modo una sconfitta. Non solo per me, ma anche per coloro
                  che in Iraq hanno bisogno di far sentire la loro voce. […]
                  Evidentemente – e questo è il mio rammarico -
                  non avevo calcolato fino a che punto possa arrivare la degenerazione
                  della guerra, pur avendola sempre denunciata: sono stati i
                  miei rapitori a sbattermi in faccia la dura realtà.
                  […] Il sequestro è  stata la riprova che la resistenza
                  armata (o almeno una parte) non è  interessata ad avere
                  un rapporto con l’esterno, visto che tratta tutti gli
                  stranieri da nemici senza più fare distinzione […].
                  Quello che mi è successo dopo la liberazione, la macchina
                  colpita dal “fuoco amico”, mi ha riportata alle
                  origini della precipitazione della situazione in Iraq: la guerra.
                  Con la guerra, la caduta di Saddam non ha portato la libertà ma
                  l’imbarbarimento della Mesopotamia, culla di civiltà con
                  i sumeri, gli assiri e i babilonesi. La realtà è questa... 
                  Per chi ha avuto la pazienza di arrivare alla fine del libro
                  il doppio senso del titolo sarà chiaro. 
“Fuoco amico” non sono solo i colpi degli americani
                  contro la macchina sulla quale viaggiavo insieme a due agenti
                  del Sismi e che hanno ucciso Nicola Calipari, ma anche quelli “sparati” contro
                  di me dai miei rapitori: io, impegnata contro la guerra e l’occupazione
                  dell’Iraq, sono stata rapita da chi sosteneva di combattere
                  per la liberazione del proprio paese. Per di più, sono
                  stata rapita mentre cercavo testimonianze sugli effetti delle
                  bombe che hanno distrutto Falluja, cercavo di dar voce a chi
                  non può averla attraverso i giornalisti embedded.
                  Perché proprio me? È la domanda che mi ha tormentata
                  durante la prigionia. Che fortunatamente  è finita.
                  E poi, l’angoscia: perché proprio Nicola Calipari?
                  Avremo mai una risposta? Non possiamo rinunciare a cercare
                  la verità. (da: Conclusioni, pp.155-57). 
                Collegamenti 
                   http://it.wikipedia.org 
                    http://www.ilmanifesto.it/ 
                    http://www.feltrinelli.it/ 
                    http://www.arcoiris.tv/  
                   
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