Claudio
              Tolomeo  (100-178 d.C.), nativo di Pelusium o
                        di Tolemaide, bibliotecario ad Alessandria d’Egitto,
              viene unanimemente considerato il più famoso astronomo - teorico
                        del geocentrismo - e l’ultimo grande geografo dell’antichità.
                        I suoi studi, raccolti nella Γεωγραφική Υφήγησισ (Gheografiké uféghesis,
                        Introduzione
                        alla Geografia), sono da ritenersi la massima espressione
                        delle conoscenze geografiche greco-romane. L’opera, quasi
                        dimenticata
                        nel mondo occidentale per tutto il medioevo, ma sempre
                        apprezzata tra gli arabi,  ritornò in auge nel Rinascimento,
                        allorquando l'umanista bizantino Manuele Crisolora, già
                        alla fine del '300, la fece conoscere in Italia e il
                        suo allievo Iacopo Angelo da
                        Scarperia
                        la
                        tradusse
                        dal
                        greco in latino tra il 1406 e il 1409 nella Curia romana
                        e, con il nome di Cosmographia, la dedicò
            al papa Alessandro V.
          In
            essa Tolomeo tratta, in 8 libri,  i principi della geografia, intesa
                          come conoscenza scientifica del mondo abitato (ecumene),
                          le costruzioni
                          – in modo moderno - delle carte, riportando in minuziosi
                          elenchi  oltre
                          ottomila luoghi conosciuti con le coordinate geografiche,
                          da cui i buoni cartografi potevano dedurre le originali
                          ventisette carte
            corografiche, da lui stesso  volute,  tra cui il planisfero.
          Pur
              affinando le conoscenze raggiunte dal suo maestro Marino di Tiro
              e ancor prima da Ipparco, Tolomeo  preferì correggere
                        la misura della circonferenza massima terrestre in 180.000
                        stadi, come determinato da Posidonio, allontanandosi
              dalla valutazione più esatta di essa di 250.000 stadi, calcolata
                        da Eratostene. Ridefinì 
                        inoltre la localizzazione dei punti massimi dell’ecumene,
                        che egli proponeva tra Thule a nord, Agisymba a
                        sud, le Isole Fortunate ad ovest e Sera Metropolis ad
                        est. Posizionò quindi l’ecumene in modo più veritiero,
            ma inesorabilmente rimpicciolì la sfera terrestre.
          
                        Tolomeo,
                    fervente assertore dei principi matematico-trigonometrici per
                la costruzione delle carte geografiche, aveva, purtroppo,
                                per l’ovvia penuria  propria dei suoi tempi,  poche
                                conoscenze astronomiche e, pertanto, la sua geografia
                                ‘ecumenica’
                                trasferì nel
                                medioevo, ma soprattutto nel rinascimento,
                                errori di calcolo gravissimi, che determinarono conclusioni
                                spesso fuorvianti
                  all’epoca delle grandi scoperte geografiche.
              Dall’inizio
                    del '400 e fino a quasi tutto il '500, per effetto della riscoperta
                    dei testi classici e per la venerazione della cultura greco-latina,
                    la geografia tolemaica era legge in virtù della grande
					              autorevolezza dell’autore. Esemplari di codici tolemaici
					              si custodivano gelosamente  nelle
                                  più ricche biblioteche d’Italia e d’Europa, da
                                  quella degli Este a Ferrara, a quella dei Montefeltro
                                  ad
                                  Urbino, da quella romana della Curia  a quella
                                  dei Medici a Firenze, da quella napoletana di Alfonso
                                  e Ferrante d’Aragona a quella di Mattia Corvino
                                  d’Ungheria
                                  e Luigi XII
                                  di
                  Francia.
              Colombo
                                    stesso, pur estimatore -
                                    e probabilmente disegnatore - di carte nautiche,
                                    che, ben più precise,
                                    ma purtroppo non considerate scientifiche,  pullulavano
                                    da almeno quattrocento anni in Europa, per la rappresentazione
                                    delle coste
                                    del Mediterrano, del continente europeo  e dell’Africa
                                    settentrionale, dovendo affrontare un viaggio intorno
                                    al mondo,  tenne
                                    in  gran
                                    conto il geografo alessandrino, fidandosi della
                                    misura tolemaica della
                                    circonferenza terrestre, che non induceva a pensare
                                    ad un nuovo continente tra l’Europa e il Catai
                                    (Cina) e il
                                    mitico Zipangu (Giappone)
                estreme terre dell’Asia, di cui si avevano notizie.                
          
          Le
                      carte tolemaiche - un planisfero, dieci per l’Europa, quattro per
                      l’Africa,
                        dodici per l’Asia - nella prima stesura,  considerate
                                        come la geografia scientifica, non furono mai accantonate
                                        per quasi due secoli, anche in numerose edizioni
                        a stampa, semmai aumentate e  corrette
                                        con le dovute cautele e il profondo rispetto
                        verso l’autore, fino a quando gli atlanti, ed in primis il Theatrum
                                        orbis terrarumdi
                                        Abraham Ortelius (1570), dal tardo cinquecento,
                                        le relegarono lentamente a sola testimonianza
                                        del sapere antico.
              Il
                                        codice napoletano, uno dei più  significativi  dal punto di vista grafico
                        e miniaturistico tra quelli che ci tramandano l’opera del geografo
                        alessandrino,  è attribuibile
                                          alla prima redazione cartografica manoscritta,
                        effettuata intorno al 1460-66 dall’umanista tedesco Nicolò Germanico,
                                          cosmografo
                                          e cartografo, attivo nelle corti degli Este
                        e dei Medici.
              L’ariosa
                        decorazione del codice con modi fiorentini ‘a bianchi girari’
                    risente dello stile di Francesco Antonio
                                            del Chierico, uno dei più stimati
                                            miniatori della Firenze del 400. Le carte,
                                            in cui predomina lo smagliante azzurro del
                                            lapislazzulo e il luccichio dell’oro, offrono
                                            una buona
                                            visione  di toponimi ed anche di oronimi ed
                                            idronimi,  retaggio
                                            della geografia commerciale (itineraria)
                                            dei romani. Sviluppate secondo una
                                            proiezione conica su
                                            base trapezoidale,
                                            le carte ci presentano  il riquadro di una
                                            cornice esterna dorata con ornamenti filigranati
                                            in
                                            rosso e
                                            oro, a cui segue l’indicazione
                                            dei gradi di latitudine e longitudine in rosa.
                                            I mari, i fiumi
                                            e i laghi assumono i toni del blu oltremare,
                                            l’orografia color terra di Siena si intensifica
                                            fino al bruno laddove
                                            lo richiede l’altitudine, le pianure sono lasciate
                                            nel colore avorio vergine della pergamena,
                                            le foreste rappresentate
                                            da gruppi
                                            di alberi, illuminati da pennelate di ocra,
                                            le città evidenziate
                    da piccoli cerchi dorati.
              Il codice
                          napoletano appartiene al fondo Farnese, risalente a papa Paolo
                          III, già cardinale Alessandro Farnese (1468-1549),
					                            portato a Napoli, nel 1736, da Carlo di Borbone,
                          figlio di Elisabetta Farnese, dopo la conquista del Regno di Napoli
                    nel 1734.
          Vincenzo
              Boni
          