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I figli della Madonna
di Paola Zito

Giovanna Da Molin, I figli della Madonna, copertinaOcchi torchini e capelli castani, nasino minuto, viso tondo nonostante la gracilità della corporatura. Così appariva alla rotara di turno – secondo quanto veniva scrupolosamente annotato negli appositi registri dell’istituto – la maggioranza dei bambini che, nel corso del Seicento, facevano il loro ingresso nella Santa Casa dell’Annunziata di Napoli. Di antica fondazione, alla chiesetta edificata come ex voto durante il regno angioino si aggiunsero, in epoca aragonese e vicereale, ben più ampi locali adibiti a ospedale e a conservatorio. Già a partire dal 1432 un’ala dell’edificio divenne stabilmente asilo per l’infanzia abbandonata. Entrava allora in funzione la celebre ruota, un cilindro di modeste dimensioni che girava sul proprio asse dall’esterno verso l’interno, accogliendo di volta in volta in volta nel grembo ligneo il nuovo arrivato. Fu abolita nel 1875, ma il brefotrofio le sopravvisse per oltre un secolo.
Una storia davvero di lunga durata – dal tardo Medio Evo a vent’anni fa – quella che Giovanna Da Molin ricostruisce in un recente lavoro dal titolo I figli della Madonna. Gli esposti all’Annunziata di Napoli (sec. XVII-XIX), Bari, Cacucci, 2001, condotto su fonti di prima mano, sapientemente interrogate. Una tappa – scrive l’autrice – di una ricerca ardua e affascinante, che soltanto negli ultimi decenni è stata investita di serio interesse da parte degli studiosi italiani ed europei, destinata a misurarsi, come del resto ogni indagine su emarginazione e dissenso, con una documentazione spesso carente e lacunosa. Del “numero impressionante di piccoli” (p.48) transitati nella Santa Casa disponiamo di notizie precise non prima del 1623, data a partire dalla quale piuttosto compatto e tutt’altro che reticente si configura il mosaico delle testimonianze. Gli elementi in nostro possesso sono dunque molti, e consentono più chiavi di lettura. Oltre alla fisionomia prevalente, siamo in grado di conoscere i nomi dei bambini, e l’età dell’abbandono, solitamente inferiore al primo mese di vita o comunque al di sotto del primo anno, con qualche eccezione dalle conseguenze decisamente drammatiche: deformazioni permanenti, talvolta addirittura letali, poteva infliggere l’introduzione forzata in quel contenitore mobile, strutturato a misura di neonato, per chi – magari da parecchio tempo – neonato non era più. Ma il rischio della sopravvivenza, lungi dall’essere legato alle sole cause Il "merco" dell'espostomeccaniche, in realtà li riguardava tutti, lattanti o svezzati, biondi o bruni, napoletani o regnicoli che fossero. La percentuale di mortalità per gli ospiti dell’Annunziata – analogamente a quanto accadeva in altri istituti del genere – era elevatissima, al punto da sfiorare, in alcuni periodi particolarmente ‘duri’, il cento per cento dei casi. Qualcuno ha parlato di “infanticidio sociale” (p.9), concepito per ammantare di caritatevole filantropia una vera e propria strage, perpetrata nel tacito accordo di parenti ed autorità, civili e religiose.
Al di là di qualunque processo alle buone intenzioni, di certo metodologicamente fuori luogo, le cifre parlano chiaro. Raggiungere il traguardo dell’adolescenza in quella condizione era privilegio riservato davvero a pochi. In molti arrivavano tra quelle mura già in fin di vita, denutriti o gravemente ammalati, per tanti altri la scarsità del vitto e le infezioni dovute alla promiscuità si rivelavano presto fatali. Le disposizioni impartite dall’alto a più riprese per migliorare l’igiene e razionalizzare l’assistenza si scontravano con le disfunzioni di un quotidiano difficile da regolamentare, e con l’endemica esiguità dei mezzi di sussistenza. Sta di fatto che probabilità di salvezza nettamente più concrete erano riservate ai piccoli cui toccava in sorte una collocazione altrove, affidati alle cure – retribuite, sia pur saltuariamente - di balie esterne, donne disposte a tenerli presso di sé, e forse a nutrirli, oltre che di cibo, anche di affetto.
Ma chi – in numero crescente nel corso del Settecento e agli inizi dell’Ottocento -, e perché, rinunciava in questo modo alle sue creature, e quasi sempre senza ombra di ripensamento? Indubbiamente madri La "ruota" dell'Annunziatadisperate, appartenenti ai ceti più poveri della popolazione, spesso vedove, o comunque sole, prive di risorse economiche ed emotive per allevare l’ennesimo figlio. Ma, accanto all’indigenza, c’era un altro motivo forte a rendere più che indesiderata, inopportuna e malaugurata, una nascita. Si trattava delle gravidanze illegittime, il cui esito costituiva una macchia indelebile per la rispettabilità e per l’onore della responsabile e di tutta la sua famiglia. Dunque, a salvaguardia del buon nome di un intero casato, bisognava disfarsi, e assai rapidamente, del frutto della colpa. I parametri etici di ancien régime, per nobili e plebei, non lasciavano margini di scelta.
E così, coperti di stracci o vestiti di seta, i proietti – la prole di nessuno -, il più delle volte alla luce del giorno e pubblicamente, affrontavano il trauma di un nuovo parto, espulsi da quella ruota che metafora di un nuovo parto intendeva essere, senza altra prospettiva che il ricovero sotto il manto della Madonna. Il merco, una medaglietta di piombo da legare strettamente al collo, che tutti li accomunava, ne suggellava inequivocabilmente il destino.

Paola Zito   

Illustrazioni:
1) La copertina del libro di Giovanna Da Molin
2) Il "merco" dell'esposto
3) La "ruota" dell'Annunziata


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© Biblioteca Nazionale di Napoli (aprile 2004)
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