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Percorsi bibliografici | Un libro al mese | Sergio Givone, Il bibliotecario di Leibniz
Un libro al mese
Percorsi bibliografici


Il bibliotecario di Leibniz / Sergio Givone
di
Mariolina Rascaglia


  Più che il titolo, quanto mai accattivante, è il sottotitolo del saggio di Givone a delineare il percorso intrapreso dall’autore nelle regioni, solo in apparenza distanti, della filosofia della storia e della letteratura. Punto di partenza della sua riflessione è, infatti, l’ipotesi che la filosofia della storia sia, inconsapevolmente, romanzo o, meglio, «romanzo che finge di essere la sola storia vera, il solo romanzo degno di essere scritto» (p. X).
   Una simile chiave di lettura, adombrata come vedremo nelle pagine della Teodicea leibniziana, consente di decomporre il Bildungsroman per eccellenza della filosofia classica – la hegeliana Fenomenologia dello Spirito – operando nella prima parte una suggestiva “decostruzione” della storia della verità su cui per secoli si è retto il sapere occidentale per restituire poi, nella seconda parte, all’indagine filosofica il suo ruolo autentico di interprete di storie, di miti e, quindi, di romanzi. La compatta sequenza logica, che accompagna il lettore nella prima metà dell’opera, lascia il posto nella seconda, quasi per incanto, a un ritmo rapsodico in cui a dominare la scena saranno i volti più o meno noti dei personaggi e degli autori protagonisti della letteratura moderna e contemporanea.
   La figura metaforica del “bibliotecario di Leibniz”, a cui allude il titolo, non è altri che Dio artefice dell’ordine presente nell’universo, secondo quanto il filosofo afferma nella Teodicea. Nella biblioteca arcana che è la mente divina «non può non esserci il libro che racconta la storia del mondo quale è accaduta veramente, la sola storia vera – osserva Givone – in quanto è la sola che, da possibile che era, sarebbe dovuta diventare reale» (pp. 6-7). È una storia che il grande bibliotecario ha chiara in mente e che assume nella sua manifestazione la forma del romanzo, il ‘romanzo della vita umana’, a cui Leibniz non osa dare corpo nel timore di diminuirne la veridicità. Preferisce considerarla una tra le infinite storie possibili, un libro fra i tanti racchiusi negli scaffali della biblioteca universale e ritenerla, in quanto frutto della mente divina, la migliore scelta possibile.
   Sarà Hegel a scrivere tale romanzo, a compiere nella Fenomenologia dello Spirito il passo ‘fatale’ che rende la storia della coscienza l’unica storia in grado di descrivere il percorso compiuto dal genere umano sulla via del sapere. È un cammino autoreferenziale, depositario della verità, che non abbandona l’orizzonte dello Spirito e rende la storia prigioniera del concetto, privandola di senso e di ogni possibile svolgimento. Anche il viaggio oltre la vita per scorgere le regioni della morte e riappropriarsi della coscienza di sé è per Hegel puro movimento dialettico che ribadisce la vittoria del concetto sulla storia. Occorre attingere a un’altra tradizione, che da Platone attraverso Vico giunge fino a Leopardi, per ritrovare contenuti adeguati al viaggio compiuto dall’anima nei meandri dell’arcano e del nulla fino al ritorno nella civiltà. La simulazione di senso, che ciascuno di essi propone nel suo percorso come risposta ai propri interrogativi, restituisce vigore all’idea platonica della radura o piana della verità.
   Per uscire dal  circolo vizioso innescato dall’hegeliana storia della verità, Givone imbocca la strada opposta: ripercorrere la storia dell’errore, che ne scardina le fondamenta attraversando i diversi gradi della precarietà dell’esistenza. Suo compagno di viaggio è il Nietzsche del Crepuscolo degli idoli per il quale la storia della verità non è altro che la «storia di un errore» (p. 50). Ben diverse dalle figure della fenomenologia hegeliana sono le icone scelte dal filosofo a scandire le tappe del suo cammino. Punto di partenza è la casa del saggio, simbolo del «mondo vero» ossia della filosofia dell’identità postulata dal modello platonico-cristiano e basata sull’annullamento dell’individualità. Alla filosofia kantiana spetta il compito di sostituire all’interno di tale mondo la religione della ragione a quella della religione, riconoscendone però i limiti di inconoscibilità e inattingibilità. Solo la terza figura, Zarathustra, riesce a cogliere il mondo e può farlo perché esso è visto come favola, oggetto non più di fatti ma di interpretazioni, secondo quanto recita il celebre passo Come il «mondo vero» finì per diventare favola riletto da Givone insieme all’ancor più celebre brano della Gaia scienza «Dio è morto». La morte della verità, al pari della morte di Dio, segna il mezzogiorno dell’umanità e consente alla filosofia di diventare romanzo: «lo Zarathustra può finalmente cominciare a essere raccontato» (p. 57).


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    Nelle pieghe della speculazione novecentesca l’autore individua gli strumenti necessari a scrivere questa nuova “filosofia della storia”. Se Pareyson e Severino si rivelano, da ottiche differenti, acuti indagatori e difensori degli orizzonti della libertà, Ricoeur offre un valido modello di applicazione del metodo ermeneutico. In un percorso circolare si succedono con movimento a spirale il tempo prefigurato, quello configurato e infine quello rifigurato, icone di particolare efficacia nella decifrazione del romanzo contemporaneo. Lungo tale percorso ogni opera dà corpo a un mondo in precedenza privo di esistenza e diventa per il lettore il modo di incontrare sé stesso in una dimensione sconosciuta ma temporaneamente definita e capace di relazionarsi con le altre, infinite storie umane. Deleuze, invece, propone di trasferire la ricerca della verità sul piano della ricerca del tempo perduto: non è l’uomo a cercare la verità, ma è questa che si cerca in ognuno di noi. L’orizzonte proustiano affonda le sue radici in coordinate leibniziane, artefici della grande rivoluzione barocca secondo cui il principio di non contraddizione non è più l’unico ma solo uno dei tanti posti a fondamento della realtà. Un’ottica di rassegnazione sostituisce per Deleuze il tradizionale ottimismo del migliore dei mondi possibili: protagonista della scena teatrale, ancora una volta ambientata in una biblioteca, Dio sceglie il meno peggiore dei mondi possibili. Wittgenstein, Cavell e Blumenberg sono, infine, i compagni di viaggio di Givone nei territori del linguaggio e della scrittura, consentendo un sicuro approdo nello spazio filosofico, inteso come scrittura delle scritture. Infatti, la vera risposta alla pretesa di dominare il mondo avanzata dalla filosofia della storia risiede nella capacità che la scrittura offre all’uomo di dare voce al mondo della vita.
    Un simile bagaglio metodologico costituisce la premessa indispensabile per percorrere la via della costruzione dell’io nel romanzo moderno. L’autore ci guida lungo una galleria di personaggi celebri, icone immortali che hanno dato un corpo e un’anima a emozioni universali. Il primo a venirci incontro è Don Chisciotte, metafora del quotidiano trasposto nella dimensione favolistica, seguito non a caso da Robinson Crusoe, simbolo della perdita della realtà nel rito del naufragio e della successiva riscoperta di sé e del rapporto con il mondo. L’esigenza dello sviluppo armonico dell’io è risolta da Goethe con l’equazione mondo = teatro: sulle tavole del palcoscenico Wilhelm Meister potrà esprimere liberamente tutte le potenzialità di cui si mostrerà capace. Al genere comico ricorre, invece, Flaubert per delineare il carattere della sua protagonista, quella Emma Bovary interprete dei sogni e delle meschinità di un mondo-farsa in cui l’io rischia di perdersi con estrema facilità. Ma è l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij che porta alle estreme conseguenze la caduta dell’io nell’abisso della perdizione schiacciato sotto il peso del conflitto tra verità e menzogna. A sperimentare l’infinita barbarie dell’io Conrad chiama a cimentarsi il crudele Kurtz, «cuore di tenebra» spietato al pari della foresta equatoriale che fa da scenario alle sue imprese.  La risalita da ogni forma di perdizione di sé è affidata all’interiorità proustiana, luogo del ritrovarsi dell’io abitato dall’oblio come dalla memoria, sulla scia di una visione dal forte sapore neoplatonico. Una venatura aristotelica sembra, invece, restituire l’Ulisse di Joyce, lì dove si palesa la natura dell’interiorità, descritta come l’anima che cammina con Dedalus, forma che percepisce e produce tutte le forme. Ultima e significativa tappa della costruzione dell’io è La coscienza di Zeno, dove il ricorso alla psicanalisi viene privato della sua funzione narrativa per insinuare un dubbio: in un sottile gioco di specchi, Svevo non pone di fronte a Freud il dostoevskiano uomo del sottosuolo?
   Nell’ultima parte del volume Givone offre al lettore ormai attrezzato un nutrito gruppo di “schede”, brevi ma stimolanti percorsi all’interno di pagine più o meno recenti – dal Nuovo Testamento a Kafka, Landolfi, Auster, Coetzee – a conferma di quanto sia piacevole perdersi negli infiniti mondi possibili che i romanzi ci offrono.


Sergio Givone Sergio Givone
Il bibliotecario di Leibniz. Filosofia e romanzo
Torino, Einaudi, 2005
(Biblioteca Einaudi. Filosofia)
ISBN: 88-06-17805-9

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