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Percorsi bibliografici

Ma è sempre un’altra storia: la Signora Ava di Francesco Jovine
di Fulvio Tuccillo

La copertina del romanzo di Jovine riedito nel 1990 nei Tascabili EinaudiNon ha ottenuto una gran fortuna questo romanzo di Francesco Jovine, che può considerarsi un autentico capolavoro della letteratura italiana del novecento. In passato contribuì a conferire una certa notorietà a Signora Ava uno sceneggiato televisivo di ottimo livello, del 1975, per la regìa di Antonio Calenda; comunque è significativo il fatto che l’opera, pubblicata per la prima volta nel 1942 da Tuminelli, figura da decenni nei cataloghi di uno dei più grandi editori italiani. Ma è anche probabile che tanti lettori di Cent’anni di solitudine di García Márquez a stento conoscano il titolo di questo romanzo, che a buon diritto e per alcuni aspetti può essere accostato al capolavoro dello scrittore colombiano e che per di più è stato scritto da un molisano ed è ambientato proprio in Molise, vale a dire in terre a noi assai vicine. Chi scrive, ogniqualvolta rilegge Signora Ava, non può fare a meno di commuoversi, di rimanere preso, incantato da questa grande storia, da questo straordinario autore, dotato al tempo stesso di una stupefacente attenzione verso il particolare, di grande senso realistico  e di una mirabile fantasia. La storia d’amore di Pietro Veleno e Antonietta De Risio è bella quanto quella di Frederic Henry e Catherine Barkley narrata da Hemingway in Addio alle armi, pur se disegnata con tratti molto più discreti e lievi; ma tanti dei personaggi di Jovine hanno un fascino indimenticabile, basti pensare al vecchio Colonnello ed a Matteo Tridone, prete di campagna vigoroso e cordiale, tuttavia tanto povero da non disdegnare nemmeno qualche furtarello alimentare e che del prete sembra aver perso quasi tutti i tratti esteriori, ma conserva invece ciò che veramente è essenziale, il senso della fraternità e della carità umana. Sullo sfondo lo scenario di una provincia meridionale al tempo stesso vivace e sonnolenta, ma scossa in profondità  dagli eventi dell’unificazione, una provincia che conserva un senso antico di rispetto umano ed una sua cultura che è messa a repentaglio proprio dalla guerra, caratterizzata – come tutte le guerre – dallo sprigionarsi di una specie di psicosi, per cui molti vogliono parteciparvi ed alla fine tutti si trovano di fronte ad eventi dolorosi ed imprevedibili, a sviluppi ben diversi da quelli sperati o previsti. Agli inizi la guerra si annuncia come un evento molto più lontano di quanto in realtà non sia, le notizie che arrivano sono imprecise e vaghe, ma il territorio è diventato insicuro; i giovani, gli studenti, i figli della borghesia di provincia, quasi tutti di vaghi sentimenti liberali, tentano con ardore di armarsi, si scontrano con le truppe borboniche sbandate e ad Isernia vengono presi in un’imboscata (la storia ci dice che proprio Isernia fu a lungo e sanguinosamente contesa); invece i contadini, anch’essi sbandati e timorosi di tutto, tendono a schierarsi con i resti dell’esercito di Francesco II, che molti di loro avevano già servito, mentre prende forma il fenomeno del brigantaggio. Ma più che altro v’è una grande agitazione e confusione: mentre le antiche forme di coesione sociale resistono abbastanza bene, si susseguono imboscate, piccoli e meno piccoli episodi di violenza, che ad alcuni costano la vita.  Alla fine qualche mano pietosa lancia i cappelli degli uccisi davanti alle loro case, a mo’ di triste messaggio per i familiari (questo è un particolare del romanzo che non si dimentica). Quando la situazione politico-militare appare ormai decisa, proprio gli innocenti, come  Pietro Veleno e Carlo Antenucci, sono costretti a fuggire, per un equivoco, per un tradimento dovuto alla paura, e si aggregano alla banda del Sergentello, destinata ad essere pur essa sterminata dalle forze ormai preponderanti del nascente stato unitario. Invano i pochi superstiti, cui si sono aggiunti Antonietta De Risio e don Matteo, tentano di passare il confine con lo stato pontificio e mettersi in salvo, perché proprio quando sono vicinissimi alla meta vengono fermati, andando incontro ad un destino di cui l’autore non ci dice nulla (qui si chiude il romanzo).

Un ritratto dello scrittoreIn realtà Signora Ava (1942)  è anche un gran libro contro la guerra, come lo saranno poi Uomini e no di Vittorini e La casa in collina di Pavese, ma forse ciò che colpisce di più è la molteplicità dei piani sui quali l’opera si articola, la grande complessità sottostante l’apparente semplicità ed il tono di evocazione favolosa richiamato già nel titolo (’a ’gnora Ava è un mitico personaggio di un canto popolare), che a sua volta sembra conferire un’amplificazione mitografica ed epico-lirica alla vicenda piuttosto che ridurla a scenarî folclorici o localistici. Ciò che si sa dell’accurato lavoro di documentazione storica svolto da Jovine, della complessità dei suoi referenti culturali (significativa è la sua familiarità con studiosi come Fortunato e Dorso ma anche con la grande cultura dell’illuminismo meridionale, da Galiani a Genovesi),  ed anche quanto viene confermato dall’altro suo grande romanzo Le terre del sacramento (1948), ove il taglio storico-realistico è molto più deciso e marcato e meglio traspare l’impegno sociale dello scrittore, chiarisce molto circa la sua formazione ma non basta ad illuminare tutto l’orizzonte di questo romanzo e dell’intera opera di Jovine. Anche gli interventi critici più significativi susseguitisi nel corso degli anni (in proposito è necessario ricordare almeno quelli di Natalino Sapegno, Carlo Salinari, Gennaro Savarese e Francesco D’Episcopo), sembrano lasciare larghe zone d’ombra, pur se ancora valida sembra la prospettiva interpretativa additata a suo tempo da Carlo Salinari che poneva l’accento sul fermento neorealistico, inteso come étos prima ancora che come fenomeno letterario, avvicinando Jovine a scrittori come Pavese e Levi. Il fatto è che il molisano è scrittore complesso e ricco, di grande personalità, ma anche estremamente sobrio, poco appariscente,  umbratile, discreto. Tuttavia  la sua voce ha sempre una risonanza profonda ed inconfondibile ed è forse la stessa che si può avvertire chiaramente in uno dei passaggi più belli del romanzo, che può considerarsi espressione emblematica del mondo interiore e poetico dell’autore. Si tratta del lungo dialogo che il vecchio colonnello don Giovannino De Risio, antico combattente napoleonico, Insieme alla moglie Dina Bertoniveterano della campagna di Russia, poi carbonaro postosi agli ordini del generale Pepe, ed inoltre intellettuale di provincia direttore e docente di una scuola privata molto frequentata, versificatore rinomato ma soprattutto filosofo autentico, ha, quasi in punto di morte, con l’amico Matteo Tridone, quest’originale prete di campagna cui tutti vogliono bene; dialogo del quale riporto qualche brano particolarmente significativo: «Confusione, Matteo; buono, cattivo, angelico, diabolico, fingere, credere, dubitare, sperare: ogni tanto tutto si fonde; per un attimo nasce l’armonia […] Io ho cercato di inseguire quell’armonia poche volte udita, non ho voluto mai con la mia volontà impedire che nascesse in me o intorno a me. Il male, Matteo, mi ha aggredito sempre di sorpresa: quando l’ho visto non ho potuto mai far niente per impedirlo. Siamo così deboli, Matteo caro, così deboli». Anche il mondo di Jovine, come quello di Verga — per riprendere quanto diceva Croce dello scrittore siciliano — è nutrito di bontà e malinconia, ed ovviamente di grande intelligenza: Signora Ava non è solo un romanzo della memoria, popolato dalle mille voci e storie della cultura popolare, non è solo la struggente elegia di un’antica provincia meridionale, è pure un’opera di straordinaria ricchezza, anch’essa caratterizzata da quel bisogno fortissimo di dar vita ad una cultura rinnovata che forse fu il segno più caratteristico ed alto della stagione in cui operarono scrittori come Vittorini e Pavese, Silone e Levi.

Fulvio Tuccillo       

 Illustrazioni:
1) La copertina del romanzo di Jovine riedito nel 1990 nei Tascabili Einaudi
2) Un ritratto dello scrittore
3) Insieme alla moglie Dina Bertoni


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© Biblioteca Nazionale di Napoli (settembre 2004)
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