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Percorsi bibliografici

Alberto Mario Moriconi / Un autocommento (discreto)
di Maria Angarano

Alberto Maria Moriconi
Un autocommento (discreto)
Napoli, Liguori, 2003

Alberto Maria Moriconi / Un autocommento (discreto).  copertinaAlla fine del 2003 è finalmente uscito un volume il cui contenuto era lungamente atteso dai “fans” del suo autore, Alberto Mario Moriconi, (tra i quali chi scrive), e cioè Un autocommenio (discreto), Napoli, Liguori, 2003. In esso sono pubblicate, autonomamente come meritavano, le note esplicative ai versi della cosiddetta trilogia laterziana (tre raccolte che si intitolano Dibattito su amore, Un carico di mercurio, Decreto sui duelli).
Versi ondeggianti tra ironia, fastosità, sarcasmo, classicità.
Versi che hanno avuto un percorso lunghissimo, e con una fortuna critica costante, dalla prima raccolta del 1952,  Vortici rupi mammole, all’ultima pubblicazione, Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti, del 1999.
In mezzo, raccolte fondamentali come Anno Mille e Le torri mobili, che segnano il passaggio a temi non più legati solo all’interiorità del poeta (Le torri mobili, per intenderci, sono le rampe di lancio delle prime avventure spaziali), e  Il dente di Wels.
Raccolte che sono la testimonianza di una continua evoluzione di contenuti, ma anche, parallelamente, di una progressiva purezza e asciuttezza formale.
Da ciò uno stile che, a volte, sembra riproporre le sintesi più ardite della costruzione latina (“ogni già selva, duna”; “il già avvocato”, dove già è la traduzione letterale di olim, ma con un maggiore significato di rimpianto), o, altrove, esibire una continua sperimentazione linguistica.
Versi legati tanto all’evoluzione personale dell’autore, quanto, altrettanto strettamente, alla storia e alla cronaca, a momenti sociali e politici che il mondo attraversa o ha attraversato, dei quali traccia profili e definizioni spesso fulminanti, giocati sul sarcasmo, più significativo ed efficace di qualsiasi lungo discorso.
Ecco, per esempio, come Moriconi stigmatizza in pochissimi versi, intitolati L’artista puro e pieno, il cinismo con cui qualsiasi episodio, anche il più terribile, diventando immagine o spettacolo, perde ogni rapporto con la realtà, con il momento in cui esso era drammaticamente reale: “L’uomo dell’arte è tal uomo che crede /  avere la guerra nazista incendïato il mondo / sol perché poi esso potesse godere / del Giorno più lungo su un telone / e Bastogne e Quell’ultimo ponte… /  E nulla – ancora, ancora ! – di più fausto / al cinema che l’<Olocausto>. // A quando, alla buon’ora, alla memoria, / un Oscar ad Adolf  Hitler / per il migliore soggetto?”.
Quale acre e amara irrisione vi è espressa, specialmente nel rilievo della bella fruttuosità dell’<Olocausto> per gli artisti e i botteghini del cinema! E come suona pessimista quell’<ancora, ancora!>
Un’altra osservazione, questa volta, per così dire, bibliografica, riguarda il fatto che quasi tutte le raccolte hanno come sottotitolo la voce Poesia, al singolare: precisa segnalazione che i singoli brani sono, sì, in sé compiuti, ma, contemporaneamente, sono anche tasselli di un discorso unitario, complessivo.
Dibattito su amore, per esempio, è un lungo itinerario attraverso le diverse specie di amore, umano, animale, vegetale. Si apre con la famosa Ballata del guano, che nell’avventura del mulero calato al mare dalla cordigliera, nel guano da spalare e nelle frotte dei  cormorani svolazzanti sopra gli stremati indios e meticci spalatori rappresenta potentemente la sorte disumana di tanti derelitti, determinata dall’egoismo (l’opposto dell’amore) dei potenti che li sfruttano; si chiude, invece, con una composizione del tutto diversa, dall’andamento quasi da novella, da favola, intitolata La tedesca al bosco calabro (c’è musica già nel titolo). In essa viene raccontato l’amore sconfinato, testardo, di una tedesca per un calabrese emigrato in Germania, rimasto paralizzato in un incidente e, per questo, ritornato in patria. Lei lo raggiunge, per rimanergli accanto, nonostante il parere contrario di lui e delle due madri, con una incrollabile fede in una vicina o lontana guarigione.
Il canto termina, infatti, così: “Noi correremo”.
Un altro aspetto da sottolineare è che l’autore non vuole che alcun filtro estraneo interpreti i suoi versi al posto del lettore, e questo è il motivo per cui le sue raccolte, unica e spiegabile eccezione l’ultima, Io Rapagnetta Gabriel, non sono accompagnate da prefazioni altrui.
In compenso, però, e così ci si riallaccia alla più recente pubblicazione, ogni volume contiene alla fine una serie di preziosissime, illuminanti note dell’autore, di cui, appunto, il volume Un autocommento (discreto) è l’auspicata espansione. Moriconi, cioè, vuole che il lettore comprenda esattamente le sue intenzioni poetiche, desidera che non rimanga alcuna zona d’ombra tra sé e il pubblico.
Proprio il contrario, bisogna dire, dell’inconfessata tentazione a sostenere l’equazione oscurità = profondità, tipica di molti odierni  poeti professionisti, definizione, questa, introdotta da Franco Lanza, il più esauriente tra i critici del poeta, nella sua fondamentale monografia dal semplice titolo La poesia di Moriconi,  Napoli, Liguori, 1988. Tali poeti, con i loro entourages, sono l’esatto opposto della singolarità, o meglio, dell’unicità dell’umbro napoletano (nato a Terni, si trasferisce a Napoli da bambino, soffrendone: “Madre, tu hai sbagliato / tu m’hai buttato fra i cementi lisci / ch’ero ancor gleba erbosa, senza / consentimento, / ch’ero ancor vento, / e per questi rigagnoli / - neve, ero, d’Appennino, - / ero aroma di pino, fra i miasmi / d’un addome di vicoli”, da Decreto sui duelli).
Anche lo stile delle note è personalissimo: conosce, del resto, il valore di Moriconi prosatore chi abbia letto i suoi scritti pubblicati da quotidiani e riviste.
Alberto Mario MoriconiDell’ispirazione che nasce anche dalla storia e dalla cronaca ecco alcuni esempi illuminanti almeno quanto lo sono i titoli: I filantropi inventori, in Decreto sui duelli, in cui, tra gli altri scienziati, inconsapevoli inventori di opere di morte, brilla, dice Moriconi, “il puro Fermi, che spezzò l’atomo come un nuovo /  pane al mondo depauperato”, una scena dal sapore freddamente evangelico, da terribile Ultima Cena; o, ancora, nel Dente di Wels, i versi intitolati Dopo la resa all’artrite del chirurgo Christiaan Barnard, con la bellissima immagine che paragona le mani del chirurgo a quelle di un pianista. (“Le tenui / dita di pianista, / le danzanti, melodiche… / stupita / ascolta quel magico tocco, / ristà, ritorna al riverso la Vita”. Ma ora, “è tronca / la mano che scippava / cuori marci e i lor petti al sepolcro / precoce, la fatata / mano”). E purtroppo non c’è un altro Barnard che possa trapiantare a lui nuove dita.
Ma il discorso poetico di Moriconi si volge anche molto più indietro, per esempio a Cesare, anzi al Calcagno di Cesare; così si intitola un brano in Decreto sui duelli. Cesare ferito in combattimento viene salvato da un suo legionario allontanatosi probabilmente per codardia da dove ardeva ancora la battaglia. E questi, in compenso (di aver compiuto semplicemente e facilmente il suo dovere), instauratosi a Roma il potere assoluto del suo imperator, un bel giorno gli chiederà sfrontatamente di fargli vincere una lite in corso con un contadino suo confinante: e sarà senz’altro e largamente accontentato. Così narra Seneca.  Ma, osserva Moriconi “E Seneca / morale Cesare grato loda, non spiega / se fu pur giusto con la controparte / (donò? a chi tolse? pagò quel che tolse? / o donò il tolto per atto d’imperio, il divo / Giulio? pagò col pubblico / danaro?)”. E a questo personaggio il poeta contrappone il carabiniere Salvo D’Acquisto, che si volle guadagnare, invece, un pezzetto di terreno (al cimitero) offrendo la sua vita per salvare quella di “un’inutile gentuccia ignota” già davanti a un plotone d’esecuzione nazista.
Il brano è importante anche perché il suo primo capoverso è uno dei pochi “luoghi” poetici moriconiani in cui si apra uno squarcio autobiografico: “Non dirò come il veterano a Cesare”. Non a caso ad esso corrisponde una delle note più emozionanti contenute nel volume che le raccoglie, e precisamente a p. 88:  “Non dirò come il veterano a Cesare, e segue il discorso del veterano, che può riassumersi così: ‘Io ho fatto tanto per te, per cui mi devi gratitudine, devi ricompensarmi; e non importa se facendo con ciò torto ad altri’. Ecco, io non parlerò mai come questo veterano, perché non farò mai nulla, spero e credo, per un Cesare (nessuna mia viltà fiorirà Cesare), per cui egli possa essermi grato e voglia darmi qualcosa. Io non gli chiederò mai niente, perché, la Dio mercé, non gli avrò dato mai niente. Mi costi quel che mi costi. Più esplicitamente, io non chiederò  mai gratitudine a un potente, a un padrone, per il semplice fatto che non ne avrò mai servito uno in alcun modo.”  E più avanti, a p. 91: “… Non gioverò a un tiranno, non servirò un tiranno, non servirò a un tiranno. Questo è sicuro, almeno questo: a una tale viltà non giungerò. Anche se (ogni follia repressa di virtù) non potrà dirsi ch’io abbia compiuto in vita mia proprio prodigi di virtù, no davvero, d’accordo. E basterebbe questa interpretazione, a ogni follia repressa; ma s’intenda in aggiunta così: che ho represso  e reprimo come semplicemente folle - del tutto sterile degli effetti auspicati -, coi tempi che corrono, ogni impulso di virtù attiva, ogni ardimento generoso, ogni azione di civico valore, contro i molteplici tiranni di turno: che appaiono invincibili”.    
Come si diceva, anche la cronaca entra nella poesia di Moriconi, come l’episodio intitolato Indagini per un annegamento nel Naviglio, da Un carico di mercurio, in cui aleggia un po’ della ruvidezza, ma anche della pietà di Carlo Emilio Gadda di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, anche se la trama è tutt’altro. Il racconto si snoda partendo in maniera  solenne: “Calciata via / dalla callosa / pianta-di-piè che è l’isola / sua Ichnusa, / finita, / la piccola sarda / spaurita, lontano, posatasi / sul continente”. Subito dopo il ritmo diventa concitato, quasi una sceneggiatura, con tipiche battute da interrogatorio poliziesco. Ma la scoperta del cadavere esige di nuovo uno stile toccante, commosso: “E fluttua stamattina / ninfea del canalone. // Una campana di gonna bleu”. Salvo a smorzarsi subito dopo in un commento da medico legale (“Nient’acqua nel polmone. Non è morte per acqua”).
Ecco, questi sono alcuni, pochi, esempi, della variegata poetica di Moriconi, del suo stile spesso lussureggiante, pirotecnico, dalle audaci acrobazie linguistiche e metriche. Ed è per questo, certamente, che la critica si è pronunciata su di lui con così caldo favore. E la bibliografia di esse sulla sua opera è amplissima.
Ma, in effetti, anche il lettore comune non può fare a meno di ammirare lo stile originalissimo che, ad esempio, per alcune definizioni usa solo aggettivi senza alcun sostantivo (“La canuta ossuta dolce”), o neologismi folgoranti (“l’altana / ciarliera e bicchierante della villa”, sede cioè di chiacchiere e feste; o il “librosario”, cioè il deposito di libri che è diventata la sua casa, libri di cui i suoi eredi, egli prevede, si affretteranno a liberarsi il giorno stesso della sua morte; essi, infatti, secondo Moriconi, non hanno di lui una opinione molto benevola: “Quattro vocabolari, /  ecco ciò ci lasciò: /  lui si contava sillabe, papà, / come denari”).
Niva Lorenzini ha affermato che “il linguaggio di Moriconi ridefinisce i confini del genere poesia … Non valgono categorie di nessun tipo per definire la sua scrittura”. Raffaele La Capria vede nelle sue creazioni, più che “una diversa maniera di far poesia, addirittura un nuovo genere letterario da lui inventato e tutto suo”. E la sua opera, a giudizio di critici eminenti, come, per esempio, Antonio Piromalli e Paolo Ruffilli, lo pone fra i maggiori poeti del ‘900.


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© Biblioteca Nazionale di Napoli (settembre 2004)
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