Martin
                    Parr, Gerry Badger 
                  The Photobook: A History volume I 
            London, Phaidon Press, 2004
            Il
                volume è presente nel catalogo della Biblioteca Nazionale di
                Napoli (segnatura: Lucchesi Palli Arte V 120) 
             Qual è il
                destino della fotografia? Percepita distrattamente, sfogliando
                un giornale, passeggiando davanti a un manifesto pubblicitario,
                o al contrario, osservata con estatica attenzione in una galleria
                d’arte, l’immagine fotografica è destinata,
                per sua natura, a mille usi e consumi. Del resto, sin dal suo
                apparire la fotografia scompigliò le carte in tavola,
                ostentando la strutturale ambiguità dei suoi statuti semiotici
                ed estetici. In molti - storici dell’arte, filosofi, studiosi
                dei mezzi di comunicazione - hanno indagato, da subito, sulla
                natura di questa ambiguità: alla fine di una secolare
                evoluzione tecnologica, iniziata con le tavole xilografiche,
                si è offerta come lo strumento definitivo per la riproduzione
                seriale delle immagini; al contempo,
                ha insidiato la pittura sul campo prima della imitazione della
                natura, e poi, anche, della produzione artistica tout court,
                dentro i flussi linguistici contaminati della comunicazione contemporanea.
                Di certo la fotografia, molto più della pittura ormai,
                ha molti destini, anche se su tutti sembra comunque prevalere
                quello del suo consumo spicciolo, quotidiano, a volte compulsivo
                e ottuso, funzionale a quella che Ando Gilardi - in una delle
                sue tante straordinarie storie dell’immagine - ha definito «la
            società dello spreco iconico».
Qual è il
                destino della fotografia? Percepita distrattamente, sfogliando
                un giornale, passeggiando davanti a un manifesto pubblicitario,
                o al contrario, osservata con estatica attenzione in una galleria
                d’arte, l’immagine fotografica è destinata,
                per sua natura, a mille usi e consumi. Del resto, sin dal suo
                apparire la fotografia scompigliò le carte in tavola,
                ostentando la strutturale ambiguità dei suoi statuti semiotici
                ed estetici. In molti - storici dell’arte, filosofi, studiosi
                dei mezzi di comunicazione - hanno indagato, da subito, sulla
                natura di questa ambiguità: alla fine di una secolare
                evoluzione tecnologica, iniziata con le tavole xilografiche,
                si è offerta come lo strumento definitivo per la riproduzione
                seriale delle immagini; al contempo,
                ha insidiato la pittura sul campo prima della imitazione della
                natura, e poi, anche, della produzione artistica tout court,
                dentro i flussi linguistici contaminati della comunicazione contemporanea.
                Di certo la fotografia, molto più della pittura ormai,
                ha molti destini, anche se su tutti sembra comunque prevalere
                quello del suo consumo spicciolo, quotidiano, a volte compulsivo
                e ottuso, funzionale a quella che Ando Gilardi - in una delle
                sue tante straordinarie storie dell’immagine - ha definito «la
            società dello spreco iconico». 
            
            Scrivere
                la storia della fotografia vuol dire perciò scrivere tante
                storie insieme: tecnica, sociale, artistica, e molte altre ancora.
                Una di queste, non consueta per il punto di vista prescelto,
                si deve a Martin Parr e Gerry Badger, autori di un bel libro, The
                Photobook: A History,
                edito nel 2004 dalla londinese Phaidon. Il loro intento dichiarato è stato
                quello di  delineare una storia della fotografia così come
                si manifesta attraverso l’evoluzione del libro fotografico.
                Cos’è un libro fotografico? Secondo
                il critico olandese Ralph Prins - citato nell’introduzione
                -  «A photobook is an autonomous art form, comparable
                with a piece of sculpture, a play or a film. The photographs
                lose their own photographic character as things ‘in themselves’ and
                become parts, translated into printing ink, of a dramatic event
                called a book». Non bastano perciò delle
                belle fotografie - è l’opinione di Parr e Badger
                - per fare un buon fotolibro, così come un ottimo fotolibro
                può contenere fotografie non straordinarie. Un libro fotografico è,
                insomma, qualcosa di più e di diverso di un contenitore
                di immagini: è una  «forma di arte autonoma»,
                che si esprime non solo negli specifici linguaggi 
                della fotografia, ma attraverso il progetto grafico complessivo,
                la scelta dei caratteri e dell’impaginazione, il rapporto
                tra testo e immagine, le modalità della scansione narrativa. 
            
            
            I
                  manuali di storia della fotografia definiscono come primo libro
                  fotografico The pencil of nature di quel William Henry
                  Fox Talbot a cui si deve l’affermazione del principio
                  negativo-positivo su cui si basa la fotografia. Il procedimento
                  di Talbot, chiamato calotipia (o
                  anche talbotipia),
                  al contrario della dagherrotipia, permetteva di stampare
                  più copie da un’unica matrice su carta, e subito
                  Talbot impiegò la tecnica per pubblicare il suo libro,
                  in 6 fascicoli usciti tra il 1844 e il 1846. Conteneva
                  24 calotipi originali che rappresentano un vero e proprio manifesto
                  della nuova arte e delle sue possibilità di riproduzione
                  della realtà, con rappresentazioni di paesaggi naturali,
                  di architetture, di oggetti archeologici e artistici. Ma non è -
                  e per molti questo costituirà una sorpresa - la celebre
                  opera di Talbot ad aprire la selezione, bensì le immagini
                  raccolte nell’album Photographs of British Algas:
                  Cyanotype impressions, che precede di qualche mese l'opera
                  di Talbot. L’autrice è una
                  studiosa di botanica inglese, Anna Atkins, che utilizzò la
                  cianotipia - tecnica ideata da quello che può definirsi
                  il vero inventore della fotografia, Sir John Herschel - per
                  realizzare quasi quattrocento stampe a contatto, senza cioè l’uso
                  di lenti o apparecchiatura ma poggiando i suoi soggetti direttamente
                  sulla carta sensibile. Il risultato è straordinario,
                  ben oltre gli scopi scientifici che la Atkins si proponeva:
                  il ferrocianuro di potassio impone a quell’erbario il
                  tipico colore blu delle cianotipie, disegnando sulla carta
                  delicate e affascinanti silhouettes.
            
            Questo
                volume - che si ferma agli anni ‘70 - organizza i materiali
                seguendo una convincente scansione tematica: i primi fotolibri,
                dedicati soprattutto alle riprese naturalistiche e geografiche;
                lo sviluppo delle possibilità di
                riproduzione della realtà ai fini degli studi scientifici,
                antropologici, documentaristici; l’affermarsi della fotografia
                come arte e delle estetiche pittorialiste prima e poi delle avanguardie;
                i reportages sociali degli anni '30;
                il fotolibro come strumento della propaganda di regime; la fotografia
                europea al servizio della memoria e testimonianza della ricostruzione
                dopo la seconda guerra mondiale; i nuovi linguaggi fotografici
                degli anni ’60-’70; il fotolibro giapponese post-bellico.
            
            È impossibile
                dar conto della mole dei titoli selezionati e descritti dagli
                autori, e oltre che sui tantissimi grandi nomi e delle celebri
                immagini che incontriamo scorrendo il ponderoso volume - da Eadweard
                Muybridge a Jacob Riis, da Julia Margaret Cameron a Walker Evans,
                da Berenice Abbott a Dorothea Lange, da André Kertész
                ad Henri Cartier-Bresson, da Paul Strand a William Klein, da
                Joseph Koudelka a Diane Arbus, ma la lista è lunga
                - il lettore non può non soffermarsi su tante interessanti
                scoperte e curiosità che riserva questo libro. Come ad
                esempio quel Book of Bread di Ower Simmons pubblicato
                a Londra nel 1903 le cui immagini esplorano con lo stesso rigore
                e precisione con la quale si studia un pianeta sconosciuto un
                banale oggetto della vita quotidiana (il pane, appunto). Oppure,
                all’opposto per la sua carica disturbante, Facies Dolorosa:
                Das Schmerzensreiche Antiltz (1934) del Dr. H. (Hans) Killian,
                il “volto del dolore” raffigurato in una serie di
                primi piani di malati terminali, costruiti con sapienza compositiva
                e tecnica raffinata, un ulteriore contributo a quell’estetica
                della sofferenza in bilico tra compassione e compiacimento che
                tanta parte ha avuto nella storia dell’immagine fotografica.
                Anche il capitolo dedicato al libro di propaganda è fonte
                di qualche sorpresa: per celebrare i regimi totalitari, soprattutto
                nel caso dell’URSS, si utilizzano i linguaggi delle avanguardie
                artistiche, si ricorre a complesse soluzioni grafiche, ad ardite
                impaginazioni, in cui l’immagine fotografica è parte
                integrante di un progetto comunicativo di notevole impatto. Infine
                sono da segnalare almeno, tra  i Provocative Materials
                for Thought - come si intitola l’ultimo capitolo dedicata
                al Giappone - le opere nate dalla collaborazione tra Heikoh Hosoe
                e Yukio Mishima. Nel ciclo Barakei l’immaginario
                dello scrittore è messo in scena e trasfigurato attraverso
                uno delle più complesse imprese foto-grafiche mai realizzate
                nella storia dell’editoria.
            
            
            Scarna
                la presenza nel volume di titoli italiani. Insieme al canonico Fotodinamismo
                futurista (1913) di Bragaglia viene segnalato ad esempio, La
                colonizzazione del latifondo siciliano, una pubblicazione
                del 1940 del Ministero dell’Agricoltura e delle foreste
                che documenta i lavori di risanamento delle aree depresse della
                Sicilia, inserita nella sezione dedicata alla propaganda di regime.
                Nello stesso capitolo è citato un altro piccolo monumento
                iconografico al fascismo, quel massiccio numero della Rivista
                illustrata del Popolo d’Italia interamente dedicato
                all’esaltazione dell’Italia imperiale, come
                recita il titolo della monografia. Tra gli altri volumi segnalati, Milano,
                Italia (1959) di Mario Carrieri, ancora Milano (1965)
                di Giulia Pirelli e Carlo Orsi, il reportage sui Travestiti (1972)
                di Lisetta Carmi, Kodachrome (1978) di Luigi Ghirri. Scelte
                tutto sommato non banali, che mettono in secondo piano qualche
                dimenticanza, come - per citare le più evidenti - quelle
                di Berengo Gardin o dello Strand che collabora con Zavattini
                per il mitico libro su Luzzara edito da 
Scheiwiller nel 1955. Ma sarebbe ingeneroso
                fare le pulci ad un’opera così ricca e completa
                (e aspettiamo comunque impazienti di leggere la seconda parte).
            
            Ha
                ancora un futuro, nella civiltà dell’immagine elettronica,
                il libro fotografico? Forse il secondo volume di questa storia
                di Parr e Badger - che, ovviamente, è un libro che parla di fotolibri
                diventando a sua volta un fotolibro - ci offrirà delle
                indicazioni e spunti di riflessioni. Sappiamo comunque che c’è ancora,
                vivaddio!, chi si diverte in progetti estremi ed eccessivi. Ce
                lo dimostra ad esempio Sumo, un tributo a un grande fotografo
                dei nostri tempi, Helmut Newton, edito da Taschen nel 1999. Il
                volume, progettato nel suo impianto tipografico da Philippe Starck,
                misura 50x70 cm per un peso di ca. 30 chili. Nella sue 464 pagine
                le inconfondibili immagini del fotografo recentemente scomparso,
                stampate con perfezione assoluta, risaltano in tutto il loro
                freddo splendore. Il problema è solo
                trovargli un posto nella libreria di casa, e prima ancora di
                racimolare i 5000 euro necessari per comprarselo!
            
            