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                  dogana. Rivista di pratica politica, Milano, Libreria delle 
                  donne, n. 63, dicembre 2002 
                
                 
                  New York, Afghanistan, Palestina, Israele, Bali, Iraq: luoghi 
                  lontani - di alcuni conservo immagini inevitabilmente superficiali 
                  di viaggi, altri non li ho nemmeno mai visti, eppure sono dentro 
                  di me, in una mia personale geografia della lacerazione. Uno 
                  scenario interiore reso muto dalla consapevolezza che, davanti 
                  a ciò che accade, la cifra della mia esistenza è l'irrilevanza. 
                  Sta per scatenarsi una guerra dettata dall'arbitrio di un nudo 
                  potere, non più mediato da dispositivi di alcun tipo, nemmeno 
                  simbolici. Un potere sordo, mediatico inarrivabile, che genera 
                  angoscia ed estraneità. Come esserci, allora, sapendo che le 
                  forme di mobilitazione della politica che conosciamo servono 
                  tutt'al più a dare un senso di conforto nel trovarsi con altri, 
                  ma non certo a spostare gli accadimenti, e nemmeno il consenso 
                  che questi trovano nelle persone? Non solo, naturalmente, non 
                  ho alcuna risposta, ma sento un inceppamento nella mia stessa 
                  vita. L’abitudine, forse, ma anche il sentimento, mi dicono 
                  che dovrei stare con le compagne e i compagni che continuano, 
                  non senza sforzo, ad andare in piazza contro i bombardamenti 
                  in Iraq, contro la politica assassina di Sharon, contro le politiche 
                  sull'immigrazione che contemplano l'esistenza di sotto categorie 
                  di esseri umani. L’abitudine e il sentimento mi porterebbero 
                  in piazza; solo che non riesco più ad andarci. In questo stesso 
                  momento, mentre scrivo- è l’8 ottobre, il giorno dello sciopero 
                  generale indetto dalla CGIL, - sento quasi fisicamente il corteo 
                  che sta procedendo dai Bastioni di Porta Venezia verso il Duomo 
                  di Milano. Una parte di me pensa che dovrei essere lì, o magari 
                  nel corteo partito da Piazza Cairoli, quello degli studenti 
                  della Flmu. Il fatto è che in realtà mi sento dolorosamente 
                  estranea all’uno e all’altro. Non so più quante volte, dopo 
                  aver partecipato a una manifestazione, sono tornata a casa con 
                  il senso di aver ottemperato a un rituale vuoto, il cui unico 
                  effetto è quello di rinsaldare un’appartenenza identitaria. 
                  Non voglio dire che le manifestazioni non servano in assoluto: 
                  quelle contro il Vietnam, per esempio, hanno prodotto la fine 
                  della guerra, anche se certo non era irrilevante che dall’altra 
                  parte ci fossero i vietcong. Quello che mi manca è una misura 
                  di realtà fattiva che mi appartenga, fuori dalle logiche identitarie, 
                  e fuori anche dal singolo gesto di buona volontà. Una possibilità 
                  di pensare e agire in un confronto con altre/altri che restituisca 
                  il senso di essere proprio là dove si parla e si agisce. Ho 
                  trovato nella politica delle donne un’indicazione di grande 
                  libertà simbolica, un agire sulla ripetizione facendo spazio 
                  alla possibilità di altro, ma anche qui sento un’afasia quando 
                  si tratta di quella geografia interiore che dicevo in principio. 
                  Afasia, ovvero mancanza di parola; non certo mancanza di sentimento. 
                  Che però spero trovi la strada per tradursi in un voler esserci 
                  rispetto al mondo. Lo spero perché ne ho bisogno. Solo così, 
                  insieme alle altre, forse potrò smettere di essere afasica e 
                  di tenermi dentro un dolore impotente. Credo che proprio la 
                  politica delle donne, mettendo in gioco il guadagno acquisito 
                  in una lunga pratica di estraneità al mondo (al mondo maschile, 
                  al mondo “così com’è) possa metterne in crisi la presenza di 
                  assoluto, ripensandolo a ogni momento, come diceva Virginia 
                  Woolf, e restituendolo in un pensiero che la pratica della differenza 
                  ha reso ospitale, capace di accogliere altro.… (da: La politica 
                  è la politica delle donne, di Daniela Padoan, p. 3) 
                   
                  
                Collegamenti 
                    
                  http://www.libreriadelledonne.it 
                    
                  http://www.retelilith.it  
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