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             Hannah 
                  Arendt, Che cos’è la politica?, a cura di Ursula Ludz, 
                  prefazione di Kurt Sontheimer, Milano, Edizioni di Comunità, 
                  1997 
                
             
              Nel 1955 venne proposto ad Hannah Arendt di scrivere un’Introduzione 
              alla politica. Non doveva essere un trattato di carattere accademico: 
              “Ho in mente una esposizione estremamente semplice. Non si tratterà 
              di una discussione dei concetti-chiave delle scienze politiche e 
              sociali odierne bensì di una introduzione a quello che realmente 
              è la politica e ai presupposti fondamentali dell’esistenza umana 
              con i quali il politico ha a che fare”. Altri impegni ed alcuni 
              importanti eventi (come la Rivolta ungherese del ’56 e il Processo 
              Eichmann) impedirono all’Arendt di portare a termine l’opera. Tuttavia, 
              tra i suoi scritti inediti sono stati ritrovati materiali concernenti 
              il progetto. Ursula Ludz ha raccolto questi documenti e li ha ordinati 
              alla luce dei criteri ispiratori dell’incompiuta Introduzione, corredandoli 
              di un commento che restituisce con chiarezza il concetto intellettuale 
              entro il quale vennero concepiti. 
                  I 
                  brani pubblicati in Che cos’è la politica? Forniscono 
                  indicazioni fondamentali sulla filosofia politica, sulla visione 
                  del mondo, sull’inconfondibile autonomia e originalità di Hannah 
                  Arendt. Il pensiero politico di questa autrice non può essere 
                  inquadrato entro schemi tradizionali. Essa è insieme idealista 
                  e realista: non si fa illusioni sullo stato del mondo, eppure 
                  è irriducibilmente convinta dell’importanza della riflessione 
                  teorica. Ed è proprio questa riflessione che l’ha portata a 
                  rievocare la politica come occasione e spazio di libertà, ad 
                  approfondire lo studio dell’”utopia della polis”. In un’epoca 
                  di miseria politica la Arendt ha ricercato le origini di una 
                  politica intesa come vita appagata e libera insieme agli altri 
                  dei quali si riconosce la diversità: “ La politica si fonde 
                  sul dato di fatto della pluralità degli uomini”. Ad onta di 
                  tutte le esperienze negative, la Arendt non ha mai perduto la 
                  fiducia nella possibilità che l’uomo agente inizi qualcosa di 
                  nuovo e faccia in modo che le cose cambino: “Finché gli uomini 
                  possano agire, sono in grado di realizzare l’improbabile e l’imprevedibile”. 
                  Ma agire liberamente significa agire in pubblico e il pubblico 
                  è l’effettivo spazio del politico. E’ lì che l’uomo deve mostrarsi 
                  nella sua spontaneità e affermarsi nella relazione politica 
                  con gli altri. L’adattamento opportunistico, la fuga nel privato, 
                  il ritirarsi dalla responsabilità politica, il comodo (e improduttivo) 
                  tedio verso la politica: a tutti questi comportamenti così diffusi 
                  oggi la Arendt contrappone il suo concetto alto, eppure non 
                  utopico della politica: “Il senso della politica è la libertà”. 
                   
                  
                
            Hannah 
              Arendt nacque ad Hannover nel 1906, studiò a Friburgo, Heidelberg 
              e Marburgo con insegnanti quali Jaspers, Heidegger e Bultmann. Con 
              l’avvento di Hitler al potere fuggì dapprima in Francia e, nel 1941, 
              negli Stati Uniti dove tenne corsi all’università di Chicago, a 
              Berkeley, Princeton e, dal 1967 al 1975 (anno della morte) alla 
              New School for Social Research di New York. E’ stata una figura 
              centrale nell’ambito del dibattito politico-filosofico del Novecento. 
              Tra le sue opere più importanti ricordiamo Le origini del totalitarismo, 
              Sulla violenza, La banalità del male, Sulla rivoluzione. 
            
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