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Elena Ferrante, La frantumaglia, Roma, Edizioni e/o, 2003

Questo libro ci porta nel laboratorio di Elena Ferrante, ci permette di lanciare uno sguardo dentro i cassetti da cui sono usciti i suoi due romanzi, L’amore molesto e I giorni dell'abbandono, offre un esempio di passione assoluta per la scrittura. La scrittrice risponde a non poche delle domande che le hanno fatto i suoi lettori negli ultimi dieci anni. Dice, per esempio, perché chi scrive un libro farebbe bene a tenersi in disparte e lasciare che il testo faccia il suo corso. Dice i pensieri e le ansie di quando un romanzo diventa film. Dice com’è complicato trovare risposte in pillole alle domande di un’intervista. Dice delle gioie, delle fatiche, delle angosce di chi narra una storia e poi la scopre insufficiente. Dice dei suoi rapporti con la psicoanalisi, con le città in cui è vissuta, con l’infanzia come magazzino di mille suggestioni e fantasie, con il femminismo. Le pagine sono densissime. Ci sono le memorie della città natale, Napoli. Ci sono brani narrativi brevi e lunghi che non hanno trovato posto nei romanzi. C’è un modo sorprendente di interrogare la memoria, i libri amati, la vita di tutti i giorni. C’è soprattutto - al centro - lo scrivere, l’affollarsi intorno alla pagina di esperienze e letture.

(dalla quarta di copertina)

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Mia madre mi ha lasciato un vocabolo del suo dialetto che usava per dire come si sentiva quando era tirata di qua e di là da impressioni contraddittorie che la laceravano. Diceva che aveva dentro una frantumaglia. La frantumaglia (lei pronunciava frantummàglia) la deprimeva. A volte le dava capogiri, le causava un sapore di ferro in bocca. Era la parola per un malessere non altrimenti definibile, rimandava a una folla di cose eterogenee nella testa, detriti su un’acqua limacciosa del cervello. La frantumaglia era misteriosa, causava atti misteriosi, era all’origine di tutte le sofferenze non riconducibili a una sola evidentissima ragione. La frantumaglia, quando ormai non era più giovane, la svegliava in piena notte, la induceva a parlare da sola e poi a vergognarsene, le suggeriva qualche motivetto indecifrabile da cantare a mezza bocca che presto si estingueva in un sospiro, la sospingeva fuori casa all’improvviso abbandonando i fornelli accesi, il sugo a bruciare nella pentola. Spesso la faceva anche piangere, e il vocabolo mi è rimasto in mente dall’infanzia per definire innanzitutto i pianti improvvisi e senza una ragione consapevole: lacrime di frantumaglia. Ormai è impossibile chiedere a mia madre cosa intendesse veramente con quella parola. Io, interpretando a modo mio il senso che le dava, ho creduto da piccola che la frantumaglia facesse star male e che, d’altra parte, chi stava male presto o tardi fosse destinato a diventare frantumaglia. Cosa poi fosse di fatto la frantumaglia, non sapevo e non so. Oggi ho in mente un catalogo di immagini che però hanno a che fare più con i miei problemi che con i suoi. La frantumaglia è un paesaggio instabile, una massa aerea o acquatica di rottami all’infinito che si mostra all’io, brutalmente, come la sua vera e unica interiorità. La frantumaglia è il deposito del tempo senza l’ordine di una storia, di un racconto. La frantumaglia è l’effetto del senso di perdita, quando si ha la certezza che tutto ciò che ci sembra stabile, duraturo, un ancoraggio per la nostra vita, andrà a unirsi presto a quel paesaggio di detriti che ci pare di vedere. La frantumaglia è percepire con dolorosissima angoscia da quale folla di eterogenei leviamo, vivendo, la nostra voce e in quale folla di eterogenei essa è destinata a perdersi. Io, che a volte soffro della malattia di Olga, la protagonista dei Giorni dell’abbandono, me la rappresento soprattutto come un ronzio in crescendo e uno sfaldamento a vortice di materia viva e materia morta: uno sciame d’api in avvicinamento oltre le cime immobili degli alberi; il mulinello improvviso in un corso lento d’acqua. Ma è anche la parola adatta a ciò che sono convinta di aver visto da bambina, - o comunque durante quel tempo tutto inventato che da adulti chiamiamo infanzia, - poco prima che la lingua mi entrasse dentro e mi inoculasse un linguaggio: un’esplosione coloratissima di suoni, migliaia e migliaia di farfalle con ali sonore. O è solo un modo mio per dire l’angoscia di morte, il terrore che la capacità di esprimermi si inceppi come per una paralisi degli organi fonatori e tutto quello che ho imparato a governare dal primo anno di vita a oggi fluttui per conto suo, gocciando via o sibilando da un corpo sempre più cosa, una sacca di cuoio che perde aria e liquidi. (pp. 108-10)

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