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Lingua bene comune, a cura di Vita Cosentino ed altri, Troina, Città Aperta edizioni, 2006

C’è un cambiamento del mondo che dipende dalla lingua che usiamo? In altre parole, è possibile riaprire una scommessa politica sulla lingua, nel mondo di oggi, che l’uso spregiudicato delle parole ci ha reso finto ed estraneo? Questo libro lo fa. E propone di guardare alla lingua come ad un bene comune, prezioso e insieme pericoloso, per la sua intrinseca politicità. Il libro è alla ricerca di strade che vadano oltre quelle individuate negli anni Sessanta e Settanta. È scritto da insegnanti, dalle elementari all’università, ogni giorno a confronto con ragazze e ragazzi che usano codici linguistici e culturali distanti da quelli delle generazioni precedenti. E torna a considerare la lingua come luogo di libertà sempre possibile che ci riguarda tutti e tutte, non solo nell’insegnamento e nella ricerca, ma, semplicemente, nella vita.

(dalla quarta di copertina)

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È stato un lungo percorso di riflessione collettiva sulla lingua, cominciato più di due anni fa, a partire da interessi condivisi e da una proposta di Vita Cosentino, tra alcune/alcuni del movimento dell’Autoriforma gentile e della Società Italiana delle Letterate, e poi del GISCEL del Piemonte e del Circolo Bateson di Roma. Oltre a chi è variamente presente qui, con un suo intervento o per il lavoro di cura editoriale (Alesi, Armellini, Bernard, Bono, Conserva, Cosentino, Fortini, Lelario, Potito, Ricci, Roncallo, Seeber), ha dato un contributo prezioso a quei primi incontri Adriana Chemello. Le intuizioni iniziali sono state poi verificate e approfondite in un convegno allargato a livello nazionale («La lingua che ci amora», Roma 4-5 ottobre 2003) cui hanno partecipato insegnanti di ogni ordine e grado, dalla scuola elementare all’università, con un taglio che senza dimenticare l’attenzione alla didattica voleva però sottolinearne la valenza politica. […] Lo dice bene Vita Cosentino in «Un’altra possibilità alla vita», quando ricorda, da un lato, la Lettera a una professoressa di don Milani e dei suoi ragazzi di Barbiana e, dall’altro, l’ostinato soffermarsi di Anna Maria Ortese sul problema espressivo, che diventa per lei – pure di modestissima origine – una questione di sopravvivenza. E, scrive Ortese, di democrazia: perché «se la democrazia dovrà diventare un giorno il mezzo più adatto a una certa felicità, […] il problema espressivo – il problema di una reale individualità – dovrà occupare, tra la gente, forse il primissimo posto». Sono due modi diversi di porre sulla lingua una questione di democrazia, in termini collettivi di lotta alla disuguaglianza sociale e di rivalutazione delle classi subalterne o, invece, fondando sulla presa di parola una politica di libertà. Come è avvenuto in Italia, ricorda Cosentino, per il movimento femminista non paritario, che questo ha fatto, «senza appiattirsi sull’istanza collettiva, e senza neppure ergersi come individualità prive di legami. È rimasto plurale inventando la pratica di relazione tra due o più donne e ne ha fatta la base per il desiderio di dire con il proprio nome, il mio, il tuo, il suo», dando spazio alla soggettività (Ortese dice «reale individualità», che è ben altro dall’individualismo): un esserci con la propria voce singolare ma non in solitudine o in rapporti di dominio, «essere con gli altri, invece che contro o sugli altri». La scommessa politica degli anni Sessanta e Settanta, fondata sul mito del progresso e su un progetto (pseudo?) egalitario, pensato per altri, visti a propria immagine (che di diventare «uguali» a quella si sarebbero avvantaggiati, che si riteneva ne fossero desiderosi), ebbe un seguito operativo nella scuola con «Le Dieci tesi sull’educazione linguistica democratica», cui fa riferimento in modo critico anche Agostino Roncallo in Vivere il linguaggio. Ma quella visione funzionalistica, con la sua fiducia di stampo illuminista che instaurava un nesso automatico tra padronanza dei meccanismi linguistici ed emancipazione, ha mostrato nel tempo i suoi limiti. Senza rinnegarne la tensione politica, ma pensandola e agendola nel nostro presente -scrive ancora Cosentino sintetizzando allo stesso tempo una causa e uno scopo di questo libro -, quel che ci interessava e ci interessa è «riparlare della questione della lingua per trovare altri sbocchi di fronte alle disuguaglianze sociali e al problema di creare una società non escludente». Dire che è possibile oggi, in tempi tanto mutati, riformulare la scommessa sulla lingua «puntando sulla libertà e toccando la singolarità di ogni essere umano». Infatti la lingua ha la possibilità di spostare l’attenzione, di fare emergere desideri nascosti, di legittimare un senso diverso delle cose, di dare felicità come di dare sofferenza. Il passaggio dalla mutezza alla parola, «esperienza politica sorgiva», la chiama Luisa Muraro in «Non una lingua qualsiasi», può essere l’inizio di una esistenza libera -al di là del risultato, che «conta, ma più conta come lo raggiungiamo, tanto che Simone Weil ha potuto scrivere che sono i mezzi a giustificare il fine e non viceversa» -, ma non è un passaggio senza problemi. Tra i segnali c’è la sensazione, forse più comune per le donne che per gli uomini e per gli adolescenti che per gli adulti, di «acosmia», ossia, scrive sempre Muraro, «di non ritrovarsi nel mondo che si rende dicibile nella lingua che si parla, come se il negoziato [tra l’esperienza e la parola] fosse in perdita di qualcosa, di un sentire, di un desiderare, di un sapere perfino, dei quali la lingua non rende conto». […] Era inevitabile, in una prospettiva di singolarità in relazione, incontrare la felice frizione delle differenze; se mantenerle in un equilibrio di conoscenza reciproca o andare invece verso la mescolanza è oggi questione aperta e vitale (mortale) per l’incontro-scontro tra culture che caratterizza a livello mondiale, ma anche nella nostra quotidianità, questo momento della storia. Ancora una volta il linguaggio ne è luogo privilegiato di pratica, laboratorio di esperienze e riflessioni, a conferma di quella valenza politica che ci ha spinto a ripensare la questione linguistica collocandola nella più generale trasformazione sociale che stiamo vivendo. Di questo parla Chiara Zamboni in «Un'estranea intimità», dove mette a tema alcune questioni fondamentali: «Che cos'è la competenza simbolica? In che modo ha a che fare con la lingua materna? È qualche cosa come un dono oppure si impara? È come una porta stretta, che non tutti attraversano. O è qualcosa di tutti, di cui non si può fare a meno? I linguaggi di formazione recente, nati per la contaminazione di più lingue tra di loro - a causa dell'immigrazione; - hanno o non hanno competenza simbolica?». Tornano qui il riferimento a don Milani e ad Anna Maria Ortese, la riflessione sulla «difficoltà di andare per la lingua dando senso autentico a ciò che viviamo» e sul prezzo, a volte doloroso, che questo comporta, l'accento sulla capacità di giocare con il linguaggio e non esserne giocati. Interrogativi che in altri modi corrono per tutto questo libro, nato infine dal percorso che qui ho cercato di delineare, dalle domande e dalle risposte che ci siamo scambiati: testo plurale articolato intorno ad alcune idee centrali che sottendono gli interrogativi più distesi, a cui se ne affiancano altri più brevi e a volte brevissimi. Tutti in varia misura segnati dalla pratica di relazioni, e l’insegnamento è tra queste, che fa da orizzonte di riferimento al discorso comune; continui sono i rimandi e gli incroci tra le quattro sezioni in cui lo abbiamo organizzato, e i cui titoli segnalano. appunto le idee portanti, i nuclei di riflessione più significativi della nostra ricerca: il nesso parole-cose e la forza di trasformazione del linguaggio in «Dire il mondo: bugie e verità», l’attenzione all’oralità in «La voce che crea», l’importanza dell’affettività, la ricchezza delle differenze, il ruolo positivo dell’errore in «La lingua che ci amora», il guadagno di una scommessa alta sul linguaggio in «Doni di libertà». Un mosaico diseguale che delinea, senza chiuderli, i contorni della questione della lingua oggi, per parlare non solo a chi fa scuola, ma a tutte quelle situazioni e realtà che si interrogano ancora sulla politica, intesa non tanto nei suoi aspetti istituzionali e partitici ma come insieme dei cambiamenti dei contesti in cui viviamo e operiamo. (da: Introduzione - Come una cosa viva di Paola Bono, pp. 9-12, 15-16)

Dall’indice: Introduzione - Come una cosa viva di Paola Bono; Dire il mondo: bugie e verità - Un’altra possibilità alla vita di Vita Cosentino; Questo non è un saggio di Bardo Seeber; Scegliere le proprie parole di Caterina Pagliasso; Vivere il linguaggio di Agostino Roncallo; Il luogo delle differenze di Nurit Peled; Non una lingua qualsiasi di Luisa Muraro; La voce che crea - Scrittura e parola magica di Elisabeth Jankowski; I test e la singolarità di Anna Potito; L’agire va leggero di Monica Cerutti Giorgi; Il tempo del respiro di Rosalba Conserva; La lingua che ci amora - Frammenti di autobiografie di Giulio Ameglio; Errata corrige di Donatella Alesi; Il suono della scrittura di Maria Cristina Mecenero; All’inizio di Luciana Tavernini; Lingua d’acqua di Maria Concetta Sala; Elementari cerchi di parole di Silvana Turci; Un’estranea intimità di Chiara Zamboni; Doni di libertà - «Impenitenti vagabonde» di Antonietta Lelario; La felicità delle narrazioni di Pina Mandolfo; Inseguendo le voci di Gisella Modica; La lezione delle tessitrici del Bauhaus di Katia Ricci; Storie di cinema e di scuola di Pia Brancadori; Avere salva la vita di Laura Fortini; Acrostico di Paola Bono; Le autrici e gli autori.

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